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Psicologi, counselor, coach e altre professioni “vicine”: facciamo chiarezza

Cercando su internet o sui social, è facile imbattersi in contenuti che riguardano il benessere mentale, lo sviluppo personale e il disagio emotivo.

A parlarne non sono solo l* psicolog*, ma anche altre professioni che, pur non essendo riconosciute, si occupano dell’aiuto alla persona: counselor o consulenti, coach, espert* in discipline olistiche e altro ancora.

Queste professioni si muovono su terreni affini e, in alcuni casi, si propongono come alternative o complementi alla psicologia.

Ma quali sono i loro confini? E come si distinguono dalla figura dello psicologo, l’unica legalmente riconosciuta in questo ambito?

Chi è l* psicolog*?

L* psicolog* è un* professionista sanitari* riconosciuto dallo Stato.

Per diventare psicolog* è necessario laurearsi in Psicologia, svolgere un tirocinio, superare un esame di abilitazione, iscriversi all’Ordine degli Psicologi e attenersi a un Codice deontologico.

Le competenze dell* psicolog* sono definite da specifiche leggi: l* psicolog* può occuparsi di sostegno psicologico, di crescita personale, di sviluppo di competenze e abilità psicologiche, di diagnosi e di ricerca. (Legge 56/1989, DPR 328/2001, Legge 170/2003).

L* psicolog* può utilizzare colloquio e altri strumenti psicologici per comprendere i processi mentali e comportamentali, esplorare difficoltà, fare empowerment e, in generale, migliorare la qualità di vita della persona (“La professione di psicologo”, CNOP, 2015).

Solo l* psicolog* può realizzare atti aventi come finalità la conoscenza dei processi mentali oppure basati su teorie psicologiche (Tribunale di Ravenna, sentenza 422/2007).

Inoltre le prestazioni psicologiche cliniche, in quanto sanitarie, possono essere portate in detrazione in sede di dichiarazione dei redditi.

Tutto ciò non è una questione di prestigio, ma di responsabilità: chi lavora sulla mente e sulle emozioni di una persona deve essere formato per riconoscere, gestire e valutare ciò che può emergere proprio da quel lavoro.

Un vuoto normativo che alimenta la confusione

La chiarezza che riguarda la figura dell* psicolog* si perde però quando si parla di altre professioni di aiuto alla persona.

Il problema principale è normativo: non esiste una legge che definisca con precisione i confini tra gli atti psicologici e le tecniche di supporto non psicologiche e questo lascia spazio a sovrapposizioni e zone grigie.

Anche la legge 4/2013 riguardante le professioni non organizzate in ordini o collegi, spesso citata da chi esercita professioni non riconosciute, in realtà non riconosce nessuna professione; stabilisce soltanto che le professioni che non hanno un albo possono costituirsi in associazioni e darsi regole di condotta.

Questa assenza di regolamentazione fa sì chiunque possa rilasciare o attribuirsi per esempio il titolo di “counselor”, a prescindere dagli studi fatti, tanto che alcuni corsi durano anni e altri pochi giorni.

Anche l* pedagogist* – cioè chi possiede una laurea magistrale in Pedagogia o un titolo equipollente – non possono lavorare come consulenti o counselor in ambito psicologico, in quanto il loro campo di intervento è limitato agli interventi pedagogici, educativi e formativi (Legge 55/2024). Per non parlare della figura dello “psicopedagogista”, un’altra professione non riconosciuta.

Una normativa più specifica aiuterebbe a evitare sovrapposizioni tra professioni e a garantire una maggiore chiarezza sui relativi ambiti e questo andrebbe a beneficio della professione di psicologo ma anche delle professioni non riconosciute e, soprattutto, di chi si rivolge a quest’ultime.

Che cos'è il counseling?

Secondo il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli psicologi il counseling mira a “sostenere, motivare, abilitare o riabilitare il soggetto […] al fine anche di esplorare difficoltà relative a processi evolutivi o involutivi, fasi di transizione e stati di crisi […] rinforzando capacità di scelta, di problem solving o di cambiamento”. Per fare questo lo psicologo utilizza “l’ascolto, la definizione del problema e la valutazione, l’empowerment” (“La professione di psicologo”, CNOP, 2015).

Secondo Assocounseling – la principale associazione di categoria – il counseling mira al “miglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione” esplorando “difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento” attraverso “uno spazio di ascolto e di riflessione” e “varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teorici” (Definizione dell’attività di counseling approvata dall’Assemblea dei soci in data 2 aprile 2011).

Appare chiaro che c’è un accordo su che cosa si intenda per “counseling”, intesa come tecnica che va oltre il semplice “dare consigli”, che si attua in un setting professionale e che utilizza strumenti specifici.

Counselor o consulenti non psicologi possono fare counseling?

In base alle precedenti considerazioni si pone la questione se una persona che non è psicolog* possa fare counseling o se si tratti di un atto specifico della professione psicologica.

Nei siti di alcune associazioni di categoria o di professionisti si trovano spiegazioni sulle differenze tra psicolog* e counselor non psicolog* che spesso lasciano il tempo che trovano. Per esempio si legge che l* psicolog* si occupa solo di psicopatologie mentre l* counselor lavora in assenza di esse, quando invece tra i compiti dell* psicolog* c’è quello di svolgere interventi di sostegno e consulenza anche con persone senza sintomi clinici.

Ma quindi che cosa distingue il counseling non psicologico?

Una nota del Ministero della Salute del 19 gennaio 2019  è esplicita: “La figura del counselor non psicologo si pone in palese sovrapposizione con quella dello psicologo”. Altre sentenze tuttavia non sono state così chiare e non si è ancora giunti a una conclusione certa.

Un* counselor può anche fare un buon lavoro motivazionale, ma se emerge un problema psicologico — e accade molto più spesso di quanto si creda — potrebbe non avere gli strumenti per riconoscerlo, gestirlo o, peggio, potrebbe decidere di occuparsene comunque.

Personalmente credo che la differenza tra l* psicolog* e le altre figure professionali “affini” non consista nei temi trattati ma nelle modalità di intervento: grazie al suo percorso di studi l* psicolog* ha gli strumenti per interpretare la domanda del* cliente e per aiutarlo a ristrutturare nuove modalità di significato, di ragionamento, di relazione e di percezione di sé. Inoltre ha le capacità per riconoscere eventuali criticità cliniche. Ritengo che questi aspetti siano fondamentali per operare un cambiamento significativo.

Il coaching

Il coaching è una tecnica nata in ambito sportivo negli anni Settanta, principalmente dal lavoro di Timothy Gallwey e John Whitmore, due sportivi che applicarono tecniche motivazionali al miglioramento delle performance atletiche. Oggi tali tecniche trovano applicazione in vari contesti, quali per esempio lo sviluppo personale, lo sport e il business.

Secondo l’Associazione Coaching Italia il coaching è un “un metodo basato sull’apprendimento attivo” che mira a “riconoscere, sviluppare e valorizzare le strategie, le procedure e le azioni utili al raggiungimento di obiettivi operativi collocati nel futuro del cliente”, offrendo “metodi, tecniche e strumenti concreti” “orientati a sviluppare l’autonomia progettuale e realizzativa”. Il coaching è quindi un intervento pragmatico orientato al raggiungimento di risultati e obiettivi concreti.

Anche il coach non è una figura riconosciuta e regolamentata. Esiste la norma UNI 11601 che definisce le caratteristiche e i requisiti del servizio di coaching, ma anche in questo caso non stabilisce le competenze e i requisiti professionali per esercitare tale attività e non specifica chi possa svolgerla.

Il coaching non è di per sé un intervento psicologico, ma può diventarlo quando esce dal campo delle performance e si sposta su quello del benessere personale, lavorando sulla psiche del* cliente, come può accadere con figure quali l* “life coach”, l* “mental coach” o, nell’ambito della sessualità, l* “sex coach”. In questi casi, di nuovo, si rischia una sovrapposizione con la professione di psicolog*.

Per questo motivo il Ministero della Salute ha bloccato ulteriori sviluppi della norma UNI relativa al coaching.

Le discipline olistiche

Infine, tra le professioni non regolamentate che possono finire per occuparsi di “psiche”, troviamo anche l* operator* di discipline olistiche, ovvero secondo la definizione dell’ENAC (Ente Nazionale Attività Culturali), le discipline che “aiutano le persone a ripristinare un sano equilibrio mente-corpo indirizzando la ricerca sulla salute verso l’individuo nel suo insieme”.

Rientrano in questa categoria pratiche come reiki, pranoterapia, fiori di Bach, cristalloterapia, cromoterapia, radiestesia, ecc. Queste pratiche non hanno validazione scientifica e spesso si fondano su concetti pseudoscientifici.

Ovviamente ogni persona è libera di curarsi come preferisce e non è impossibile che qualche intervento possa apportare dei benefici per effetto placebo.

Il problema legale nasce quando tali operator* affermano di poter lavorare su squilibri emotivi e su pensieri disfunzionali allo scopo di ripristinare il benessere psicofisico.

Non a caso una sentenza della Corte di Cassazione (Penale, Sez. VI, n. 39339/2017) ha condannato un operatore olistico che, pur non spacciandosi per psicologo, lavorava sugli aspetti emotivi con il reiki. La Corte ha stabilito che “non è necessario che il soggetto non qualificato si avvalga delle metodologie proprie della professione psicoterapeutica, ma è sufficiente che la sua azione incida sulla sfera psichica del paziente con lo scopo di indurne una modificazione che potrebbe risultare dannosa”.

In altre parole, lavorare sulle emozioni è già un atto psicologico e può essere svolto solo da chi è abilitato a farlo.

Conclusioni

Viviamo in un’epoca in cui la salute mentale non è più vista come un tabù, ma la confusione intorno alle professioni del benessere è ancora grande.

La mia impressione è che non si sia posta abbastanza attenzione al benessere mentale, diversamente da quanto è avvenuto per quello fisico/organico, in cui è molto più chiaro alla popolazione che per effettuare delle cure sanitarie è necessario appartenere a una professione medica riconosciuta, mentre sembra quasi che di benessere mentale se ne possa occupare chiunque.

Se davvero teniamo alla nostra salute psichica, dovremmo pretendere lo stesso livello di serietà e di garanzie che pretendiamo per la nostra salute “fisica”.

In un mercato dove tutti sembrano potere e volere “aiutare”, la vera differenza non la fa chi promette di più, ma chi è format*, riconosciut* e tenut* a rispondere del proprio operato.

Perché quando si parla di psiche, non si improvvisa.

Andrea Farolfi
Andrea Farolfi - Psicologo e sessuologo a Firenze e online. Lgbtqia+, poly, kinky friendly.

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Dott. Andrea Farolfi

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